La teoria dell’attaccamento spiega come nasce la relazione genitore-figlio e come questa influenza il modo in cui il bambino e l’adulto che diventerà si rapporteranno con gli altri e con sé stessi.
Cos’è l’attaccamento?
L’attaccamento è un legame emotivo durevole tra due esseri umani, che si traduce in un bisogno di vicinanza, fisica e psicologica. La prima forma di attaccamento è quella che sperimentiamo da piccolissimi verso i genitori o i loro sostituti ed è capace di influenzare il modo in cui ci relazioneremo nel resto della vita: con le altre persone, col mondo e con noi stessi.
L’attaccamento è un meccanismo affinato dall’evoluzione per facilitare la sopravvivenza dei cuccioli. I piccoli di sapiens non sono in grado di sopravvivere da soli e per istinto cercano aiuto come possono. Strillando, agitando braccia e gambe, protendendosi e aggrappandosi, seguendo – quando sono capaci di camminare –, fanno leva sull’istinto umano e animale di accudire i cuccioli.
Ma non è solo cibo che cercano i bebè, o calore. Poiché non sono in grado di gestire da soli le proprie emozioni hanno bisogno di un adulto vicino che co-regoli per loro, trasmettendo calma e senso di sicurezza. Se il solo contatto fisico può rafforzare la relazione e tranquillizzare, anche la voce e le espressioni del viso contano: i bambini sono in grado di interpretare la mimica facciale della madre già a tre-quattro mesi.
Quando i bimbi sono spaventati o a disagio, il loro sistema di attaccamento si attiva e li spinge a cercare protezione o conforto nelle figure di riferimento principali – genitori o loro sostituti. Se l’adulto risponde all’appello, il sistema nervoso del bambino va verso una nuova stabilità.
Anche da adulti sperimentiamo l’attaccamento nelle relazioni affettive, in cui tendiamo a replicare i comportamenti appresi da piccoli interagendo con chi si prendeva cura di noi.
Cosa dice la teoria dell’attaccamento?
La teoria dell’attaccamento è una teoria psicologica evoluzionistica che spiega come nasce la relazione genitore-figlio e come questa condiziona lo sviluppo psicologico del bambino e dell’adulto che sarà.
La teoria dell’attaccamento dice che, se i genitori riescono a comunicargli un senso di protezione e affidabilità, il bambino può creare con loro un rapporto sano e acquisire la sicurezza necessaria ad allontanarsene per esplorare il mondo. Questo tipo di legame è chiamato attaccamento sicuro, e favorisce una sana indipendenza. I genitori diventano un porto sicuro: sapere che l’adulto ‘c’è’ permette al bambino di separarsene per brevi periodi senza troppo stress.
Ma le cose non vanno sempre così. L’attaccamento può assumere forme diverse, più o meno funzionali.
Interagendo con le figure di riferimento ogni bambino costruirà il suo stile di attaccamento, che lo influenzerà “sino alla morte” (Bowlby): infatti anche gli adulti presentano stili di attaccamento riconoscibili, analoghi a quelli infantili.
Secondo la teoria, il bambino può sviluppare un primo attaccamento sia con la madre che con altri adulti e sceglierà non chi è più presente fisicamente ma chi è più attento ai suoi bisogni. A partire da questa relazione il bambino creerà uno schema che applicherà in tutte le relazioni successive per prevedere, interpretare e controllare la realtà. Si chiama modello operativo interno di attaccamento ed è una rappresentazione mentale del mondo, dei rapporti interpersonali e di sé.
“Il bambino si costruisce un modello interno di sé stesso in base a come ci si è presi cura di lui.”
John Bowlby
Bowlby è il primo a rendersi conto che per crescere bene un piccolo sapiens ha bisogno di molto più che cibo e igiene: deve sapere di poter contare sempre sul genitore o un’altra figura di riferimento. Se, per qualunque motivo, questa è assente o poco reattiva di fronte alle richieste di attenzione e di aiuto, il bambino rischia di assumere uno stile d’attaccamento insicuro, che gli renderà più difficile fidarsi degli altri, essere sereno e aver voglia di sperimentare in modo autonomo. Difficile, non impossibile.
Oggi che la teoria dell’attaccamento è stata molto ampliata, sappiamo che il nostro stile di attaccamento apparterrà a uno di questi quattro tipi: a quello sicuro o a uno dei tre insicuri (evitante, ansioso e disorganizzato).
Cosa cambia in pratica?
Com’è nata la teoria dell’attaccamento?
La teoria dell’attaccamento si deve al lavoro pluridecennale di più psicologi e psicoterapeuti.
Nasce negli anni Cinquanta dalle intuizioni di John Bowlby, che, lavorando a lungo con bambini che avevano commesso reati o erano stati abbandonati dalle famiglie, poté osservare i danni che non avere un adulto che faccia da ‘porto sicuro’ può causare alla personalità, alle capacità relazionali e persino alle capacità cognitive di un bimbo.
Nel definire la teoria dell’attaccamento, lo psicologo attinse molto agli studi sugli animali dei suoi contemporanei Lorenz e Harlow.
Konrad Lorenz aveva dimostrato che i pulcini d’oca subiscono l’imprinting, cioè sviluppano attaccamento verso il primo essere che vedono muoversi, anche se non è il genitore e persino se appartiene a un’altra specie.
Nello stesso periodo, un altro ricercatore – Harry Harlow – dimostrò attraverso esperimenti sulle scimmie che non è il cibo a innescare il legame tra genitori e figli, ma qualcosa di immateriale. Osservò che i cuccioli di macaco separati dalla madre alla nascita passavano la giornata appesi a un fantoccio coperto di pelliccia, morbido e caldo, avvicinandosi al macchinario freddo e spigoloso che distribuiva il latte solo per mangiare.
Le prime teorie comportamentali ritenevano l’attaccamento infantile una risposta all’offerta di cibo da parte del genitore, quindi un comportamento appreso. Harlow se ne allontanò interpretando l’attaccamento in chiave evoluzionistica: una predisposizione dei neonati diventata la norma poiché aumenta le probabilità di sopravvivenza.
Oggi alcuni di questi concetti ci sembrano scontati, ma mentre Bowlby, Harlow e Lorenz portavano avanti le loro ricerche, i loro colleghi continuavano a suggerire ai genitori di trattare i bambini con distacco, centellinando le manifestazioni d’affetto per non mettere a rischio lo sviluppo di una personalità sana e indipendente. Era ancora in voga la teoria di John Watson, che raccomandava di non dare ai figli più di un bacio al giorno.
Negli anni Sessanta Rudolph Schaffer e Peggy Emerson ampliano la teoria dell’attaccamento definendo le quattro fasi attraverso cui passa l’attaccamento nei bebè, dichiarando superate le fasi infantili freudiane.
Negli anni Settanta Mary Ainsworth riconosce tre diversi stili di attaccamento grazie a un metodo da lei ideato, la Strange Situation: sicuro + insicuro evitante + insicuro ansioso.
Negli anni Ottanta Mary Main e Judith Solomon ‘scoprono’ l’attaccamento insicuro disorganizzato; inoltre verificano che gli stili di attaccamento appartengono anche agli adulti e spesso sono la naturale evoluzione di quelli infantili.
I quattro stili di attaccamento
Gli stili di attaccamento sono i possibili schemi di comportamento che un bambino adotta verso genitori o sostituti, e che tenderà a ripetere anche da adulto con i partner. A partire dagli studi di Bowlby, prima Ainsworth e poi Main e Solomon hanno individuano quattro stili di attaccamento: uno sicuro e tre diversi tipi di attaccamento insicuro.
1. Attaccamento sicuro
L’attaccamento sicuro è quello più sano e più diffuso, che il bambino può far suo solo se sente di avere nel genitore un porto sicuro in cui rifugiarsi in caso di bisogno. Proverà un po’ di stress quando l’adulto è assente, ma saprà che si tratta di una situazione temporanea, e sarà felice di rivederlo. Questo modello positivo lo faciliterà nel gestire le proprie emozioni e i rapporti umani.
Purtroppo, almeno nella metà dei casi le figure di riferimento non riescono a trasmettere ai piccoli umani il senso di protezione e la tranquillità di cui avrebbero bisogno, favorendo stili di attaccamento insicuro.
2. Attaccamento insicuro evitante
L’attaccamento evitante è la reazione del bambino che sente di non poter contare sugli adulti più vicini e cerca di farne a meno. I piccoli umani con questo stile di attaccamento mostrano indifferenza per la presenza o assenza di genitori o sostituti – tanto da non mostrare quasi preferenza per questi ultimi rispetto a dei perfetti sconosciuti – ma in realtà sono stressati, sempre.
3. Attaccamento insicuro ansioso (o ambivalente)
Un bambino che non sa cosa aspettarsi dalle persone che se ne prendono cura, perché si comportano in modo scostante e contraddittorio, può adottare uno stile di attaccamento ansioso. Tenderà ad attirare l’attenzione su di sé con capricci e scenate; sarà nervoso anche in presenza dei genitori; si agiterà moltissimo quando si allontanano e faticherà a calmarsi quando ricompaiono.
4. Attaccamento insicuro disorganizzato
L’attaccamento disorganizzato è una forma di adattamento a situazioni familiari estreme e a traumi infantili. In questo caso il bambino percepisce chi lo accudisce come un aiuto e un pericolo allo stesso tempo: non riesce ad avere nei confronti delle figure di riferimento una strategia di comportamento coerente e quindi oscilla tra lo stile ansioso e quello evitante.
Le fasi dell’attaccamento nei bebè
Negli anni Sessanta i ricercatori Rudolph Schaffer e Peggy Emerson ampliano la teoria definendo le quattro fasi dell’attaccamento (e dichiarano superate le fasi infantili freudiane):
- Pre-attaccamento (da 0 a 6 settimane): i neonati sono sostanzialmente asociali, cioè possono rispondere con lo stesso sorriso a stimoli da parte di persone, cose o animali.
- Attaccamento indiscriminato (da 6 settimane a 7 mesi): ai bebè piace interagire con altri esseri umani, senza particolari preferenze per nessuno di loro, e si mostrano contrariati quando questi si allontanano.
- Attaccamento specifico (dagli 8 ai 9 mesi): i bimbi mostrano una chiara preferenza per la madre, o chi si prende più cura di loro, e appaiono stressati quando lei si allontana. È iniziato l’attaccamento vero e proprio.
- Attaccamento multiplo (dai 10 mesi): da quest’età in poi i bambini possono creare legami di attaccamento con diversi caretaker primari e secondari – compresi nonni, fratelli e persone non consanguinee che vedono spesso –, anche in modo gerarchico, sentendosi più legati a uno che a un altro.