comunicazione nonviolenta o empatica

Comunicazione Nonviolenta: usare il conflitto per migliorare le relazioni umane

Nella Comunicazione Nonviolenta non risolviamo i conflitti persuadendo con gentilezza le altre persone a fare quello che vogliamo e neanche accettando acriticamente di fare quello che pretendono loro, ma cercando di capire e soddisfare i veri bisogni, nostri e di tutte le persone coinvolte.

Qui puoi scoprire: Cos’è la Comunicazione Nonviolenta I quattro pilastri della Comunicazione Nonviolenta Come applicare la Comunicazione Nonviolenta Principi della comunicazione Nonviolenta Linguaggio giraffa e linguaggio sciacallo Fonti e risorse sulla CNV

Cos’è la Comunicazione Nonviolenta

La Comunicazione Nonviolenta (CNV) è un metodo di risoluzione dei conflitti basato sull’empatia, ideato da Marshall Rosenberg, psicologo e mediatore internazionale statunitense. Un principio fondamentale della CNV è che ogni nostra azione sia mossa da un bisogno; esprimendo il bisogno permettiamo a chi ci ascolta di riconoscere una parte di sé in noi, e di aver voglia di provare a venirci incontro anziché di farci la guerra. La comunicazione empatica ci chiede di scegliere parole diverse ma anche di ascoltare in modo diverso. Perché funzioni occorre mettere da parte il giudizio e accettare i bisogni altrui per quel che sono, senza etichettarli come sintomi di un qualche disturbo. Una persona che si sente trascurata o offesa o tradita non è dipendente o narcisista o egoista o afflitta da manie di persecuzione: è un essere umano, con necessità ed emozioni umane. Prima ancora che un modo ‘nuovo’ di esprimerci, la CNV è un modo ‘nuovo’ di vedere gli altri. E ci permette di manifestare quella che, secondo Rosenberg, è la vera natura umana: la compassione, nel senso di provare emozioni insieme, mettendoci nei panni dei nostri simili. La CNV facilita l’empatia, con gli altri e con noi stessi. È stata utilizzata per risolvere i conflitti in coppie, famiglie, scuole, organizzazioni, tribù e Paesi in guerra. Aiuta a migliorare la qualità delle relazioni e interazioni umane di ogni genere: con partner, figli, genitori, amici, vicini di casa e persone incontrate per caso, con colleghi e con enti attraverso le persone che ne fanno parte. Con la Comunicazione Nonviolenta diamo agli altri la possibilità di dirci di sì. Tuttavia, lo scopo del metodo non è convincere chi abbiamo intorno a fare quello che vogliamo noi ma innescare una connessione profonda tra esseri umani, uno spazio di vero dialogo in cui i bisogni di tutti possano essere soddisfatti. Ma come si comunica in modo non violento? Torna all’indice

I quattro pilastri della Comunicazione Nonviolenta

La Comunicazione Nonviolenta, o collaborativa o empatica, o Linguaggio Giraffa è un modello che si compone di quattro pilastri o fasi o passi. Una formula anche chiamata OSBR (osservazione, sentimenti, bisogni, richieste):
  1. Osservazione dei bisogni Vedo…, Sento…, La situazione è…
  2. Espressione dei sentimenti Questo mi fa sentire…
  3. Riconoscimento dei bisogni Perché io ho bisogno di/che…, Perché io vorrei…
  4. Formulazione delle richieste Vorresti fare questa cosa… ?, Ti dispiace se… ?, Mi piacerebbe che…
In altre parole:
  • Esprimo quel che provo quando l’altra persona fa una determinata cosa ma senza darle la colpa. Mi prendo la responsabilità di quel che provo e spiego quale mio bisogno mi porta a sentirmi così in quella circostanza.
  • Faccio la mia richiesta. Propongo all’altra persona di compiere un’azione che credo possa soddisfare il mio bisogno.
  • Mi preparo ad accettare anche un no.
  • Ascolto le sue risposte senza giudicare. Cerco di capire anche quali siano le sue emozioni ed esigenze.
  • Provo a non fissarmi sull’ottenere che l’altra persona faccia esattamente quanto richiesto. Mi concentro sulla comunicazione reciproca di emozioni e necessità profonde.
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Linguaggio giraffa e linguaggio sciacallo

La Comunicazione Nonviolenta è chiamata anche Linguaggio giraffa perché la giraffa è il mammifero terrestre col cuore più grande e grazie al suo lunghissimo collo riesce a vedere le cose dall’alto e da lontano; è forte ma non attacca gli altri animali. Il linguaggio della giraffa è gentile, empatico e mira a risolvere problemi attivando la collaborazione. Il linguaggio che usiamo abitualmente invece è chiamato da Rosenberg linguaggio sciacallo: è aggressivo, contiene insulti espliciti o velati a tutti coloro che non si comportano secondo le nostre aspettative – compresi noi stessi –, e rispecchia una visione della realtà limitata. Le parole che usiamo più spesso servono a giudicare, soppesare, accusare, pretendere – quante volte usiamo devo/devi? –, manipolare, ricattare, cercare di imporre il nostro punto di vista su quello altrui. Torna all’indice
linguaggio giraffa

 

Come applicare la Comunicazione Nonviolenta – Esempio

Questo è un esempio di come si può applicare la Comunicazione Nonviolenta nella vita quotidiana. Vediamo prima come potrebbe svolgersi una normale conversazione un po’ problematica tra un uomo e una donna che hanno una relazione sentimentale.

– Andiamo al cinema stasera?

– Non posso, voglio finire di fare una cosa.

– Non hai mai tempo per me.

– Tu non capisci che io ho da fare.

Battiti cardiaci in aumento, giudizi reciproci, magari si inizia anche a rivangare cose che c’entrano poco, e si litiga.

E se entrambi avessero usato la comunicazione empatica, invece?

Esempio di CNV applicata

– Sono secoli che non facciamo qualcosa di carino insieme. Mi sento trascurata/sola/poco importante. Avrei bisogno di sapere che hai voglia di dedicarmi del tempo ogni tanto.
Che ne dici se andiamo al cinema stasera?

– Io ho bisogno di fare questa cosa sennò non sto tranquillo e comunque non sarei una gran compagnia. Che ne dici se usciamo domani/questo fine settimana andiamo fuori città/oggi anziché vedere Avatar (…) mangiamo insieme qua sotto e poi mi rimetto al pc?

– Va bene. Magari oggi esco con le mie amiche così sei anche più tranquillo e nei prossimi giorni ci organizziamo per andare da qualche parte nel fine settimana.

Una soluzione del genere, pur diversa dalla richiesta iniziale, porta vantaggi a entrambe le persone coinvolte.

Usando la CNV potrei scoprire che il mio bisogno può essere soddisfatto per vie alternative a quelle che avevo immaginato. Perciò è importante iniziare la conversazione avendo ben chiaro ciò che realmente si vuole, che non è mai la richiesta in sé, e stare concentrati su quello.

Io credo che tanti conflitti nascano proprio dal confondere il mezzo (la richiesta) con il fine, trasformandolo in una questione di principio su cui fare a braccio di ferro. Non finisce mai bene: a volte l’altra parte cede, ma essendo stata costretta a fare una cosa che non sentiva realmente di fare, coverà un risentimento che prima o poi verrà fuori; in altri casi ci si manda a quel paese subito e almeno finché non ci si rende conto che non ne valeva la pena. Possono volerci anni, a volte non basta una vita.

Per comunicare in modo empatico bisogna prendersi il tempo che serve a spiegarsi, a trovare le parole giuste, a resistere agli automatismi. Ma quanto tempo ed energia ci portano via i conflitti? Vale la pena di investirne un po’ per risolverli in modo non violento, abbiamo solo da guadagnarci.

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I principi della Comunicazione Nonviolenta

“Comunicazione Empatica o Comunicazione Nonviolenta è un semplice e straordinario linguaggio che facilita la comunicazione con sé stessi e con gli altri, focalizzando l’attenzione sui bisogni e le azioni che arricchiscono la propria vita insieme a quella degli altri.”
Marshall B. Rosenberg

Non giudicare

Secondo Rosenberg, osservare senza giudicare è la più grande capacità che possa avere un essere umano. Dovremmo imparare prima di tutto a separare le azioni dalla persona e dal giudizio; anche quando ci disturbano. Poi a riportare i comportamenti ai diretti interessati come semplici fatti, nel modo più obiettivo e privo di giudizi possibile. Senza commentare, dedurre, interpretare, ipotizzare. Abbandonando la convinzione che chi fa cose che non ci piacciono sia una persona ‘sbagliata’.

Esattamente il contrario di quel che la maggior di noi è abituata a fare perché è quel che abbiamo appreso sin da piccoli. Ad esempio a Rosenberg capitava spesso di sentirsi dire cose tipo “mia figlia è pigra”, “il mio compagno di stanza non ha rispetto per gli altri”. Al che lui ribatteva che non erano fatti ma giudizi e supposizioni. E ci voleva parecchio lavoro perché i suoi interlocutori riuscissero a isolare il fatto nudo e crudo, cioè “mia figlia non tiene in ordine la sua camera” o “il mio coinquilino ascolta musica mentre dormo e mi sveglia”.

Può aiutarci a sospendere il giudizio anche ricordarci che, come sosteneva Rosenberg, ogni essere umano fa quel che fa per soddisfare i propri bisogni nel modo migliore di cui è capace.

Esprimere le proprie emozioni

Le emozioni sono, per Rosenberg, “quel che c’è di vivo in noi”. Dovremmo ascoltarle perché ci guidano verso i nostri bisogni profondi; “sono dei messaggeri” direbbe Nicole LePera. È importante saperle comunicare per permettere agli altri di entrare in empatia con noi. Ma non per tutti è facile.

Un ragazzo era molto stressato perché il suo coinquilino lo disturbava mentre dormiva.

Rosenberg gli chiese:

– Come ti senti quando il tuo coinquilino fa questo?

– Sento… che non ha rispetto per gli altri.

– Ehm no, questo non è come ti senti, questa è una deduzione. Cosa provi nel tuo corpo quando lui si comporta così?

Non basta usare la parola sentire per esprimere dei sentimenti, bisogna andare a cercare le sensazioni fisiche che essi generano nel corpo per riuscire a riconoscerli e chiamarli col loro nome.

“Ogni tipo di violenza è il risultato del fatto che le persone inducono se stesse a credere che il loro dolore derivi dagli altri e che, di conseguenza, essi meritino di essere puniti.”
Marshall B. Rosenberg

Assumersi la responsabilità delle proprie emozioni

Le mie emozioni sono solo mie. Non sono le azioni degli altri a farmi sentire in un certo modo ma le interpretazioni che ne do e il modo in cui rispondono ai miei bisogni profondi, di connessione, attenzione, comprensione, ad esempio. Nessuno ha colpa, o merito, dei miei sentimenti. È importante che io ne sia consapevole e lo tenga ben presente quando chiedo a un altro essere umano di fare qualcosa per me.

Invece siamo abituati a mettere in correlazione i comportamenti altrui e quel che proviamo, e a far leva sui sensi di colpa per ottenere da altri esseri umani quel che crediamo ci serva per star bene (“se fai il bravo la mamma è contenta”). Ma è un modo di fare disfunzionale, sia per loro, che non possono scegliere in modo libero se venirci incontro o meno, sia per noi, che mettiamo la nostra serenità in mano a persone/entità esterne.

Esprimere i propri bisogni profondi

All’origine dei nostri sentimenti ci sono bisogni soddisfatti o insoddisfatti. Rosenberg trovava che uomini e donne facessero molta fatica a vedere i propri bisogni, perché educati a pensare solo a ‘quel che si deve fare’, al lavoro, alla casa, alle famiglie da accudire e mantenere. Ma la repressione dei bisogni insoddisfatti non impediva a queste persone di provare un disagio, che esprimevano con giudizi morali verso chi non faceva per loro quel che ‘avrebbe dovuto’.

Secondo Rosenberg, le persone non riescono a esprimere le proprie necessità profonde anche perché hanno paura di ricevere come risposta una ‘diagnosi’ gratuita: sei troppo sensibile, sei egocentrico, sei troppo questo e troppo poco quell’altro. A volte capita ma in realtà, quando ci impegniamo a comunicare i nostri bisogni diamo agli altri la possibilità di capirci, perché i bisogni umani sono universali.

Chiedere, non pretendere

Per comunicare in modo non violento dobbiamo imparare a distinguere le richieste dalle pretese. Cosa differenzia una richiesta da una pretesa?

La reale differenza non sta nella gentilezza delle parole o del tono di voce, ma nella reazione in caso di rifiuto. Una pretesa ha molto a che fare con un ordine: per quanto possa formularla in modo gentile, io sento che l’altra persona ha l’obbligo morale di obbedirmi. Non sono pronta ad ascoltare le sue esigenze.

Cosa succede quando una persona percepisce una pretesa anziché una richiesta?

Succede che si irrigidisce, perché ogni essere umano tiene alla propria autonomia e la sente minacciata dagli ordini: o si rifiuta di obbedire; o dice “sì sì” e poi non fa niente; oppure esegue ma solo per sensi di colpa o paura delle conseguenze.

Noi invece vogliamo che chi fa delle cose per noi le faccia per sua libera scelta, per il piacere di aiutarci.

Rosenberg racconta che suo figlio a ogni nevicata spalava il vialetto di una vicina di casa che non era in grado di camminare ma guidava, in modo che potesse uscire di casa senza problemi; e non voleva che lei sapesse che era lui a farlo. Il vialetto di casa dei suoi genitori, invece, che era minuscolo, non c’era verso di farglielo pulire.

Lo psicologo racconta anche della guerra della spazzatura che si teneva ogni settimana tra lui e suo figlio, a cui aveva assegnato il compito di portarla fuori, che lui non svolgeva perché gli arrivava come un ordine, tant’è che una volta gli aveva chiesto: “Chi era il tuo schiavo prima che io nascessi?”.

Avere chiaro l’obiettivo della conversazione

Quando si vogliono cambiare le cose nelle relazioni, nelle organizzazioni e nel mondo, è fondamentale sapere bene, sin dall’inizio, cosa si vuole ottenere da ogni conversazione che si affronta. Altrimenti non si può avere uno scambio produttivo e questo è frustrante per tutti.

Nella vita privata spesso ci troviamo ad alzare polveroni sulla scia di una qualche emozione negativa molto prima di avere chiaro cosa vogliamo davvero dalla persona che stiamo aggredendo. Così quello che avrebbe potuto essere un dialogo costruttivo si risolve in un attacco personale reciproco.

Non avere un obiettivo immediato è ancora più problematico nel caso di gruppi e associazioni. Spesso si finisce col parlare dei problemi in modo vago senza pianificare azioni concrete proprio perché manca una direzione chiara. E le riunioni improduttive sono molto scoraggianti, e frustranti, perché le persone hanno tolto tempo ad altro per esserci e sentono di averlo sprecato.

Io credo che per non farci trascinare dall’emotività durante una conversazione sia importante imparare a guardarsi dall’esterno, e in questo aiuta un sacco la meditazione, specie quella ‘di consapevolezza’, da cui è nata la Mindfulness. Poi è sempre utile avere coscienza di certi meccanismi automatici del cervello, per riconoscerli ed evitarli quanto più possibile; e capire da dove arrivano anche certi pensieri altrui e riuscire ad avere più pazienza. 

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Fonti e risorse sulla CNV

Nonviolent Communication: A Language of Life, di Marshall Rosenberg

Speaking Peace: Connecting with Others Through Nonviolent Communication, di Marshall Rosenberg

Le parole sono finestre (oppure muri). Introduzione alla comunicazione nonviolenta, di Marshall Rosenberg

Il linguaggio giraffa. Una comunicazione collegata alla vita, di Marshall Rosenberg

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